RESILIENZA E PROATTIVITA’
Quale momento migliore di quello che stiamo vivendo per chiamare all’appello due geniali capolavori della moderna ingegneria linguistica. I due fulcri di ogni discorso aziendale e accademico almeno dell’ultima decade. Signori e signore ecco a voi in tutto il loro splendore: la proattività e la resilienza. Applausi scroscianti.
I concetti prediletti dalla vulgata contemporanea per delineare quelle caratteristiche essenziali del vivere moderno, il nuovo habitat cognitivo del nuovo attore sociale nell’epoca della sua riproducibilità disumana. I due dadi che sbancano il tavolo. Magistrale esempio di come si possa colonizzare il linguaggio, trasformandolo nel principale strumento di addomesticamento della realtà e delle menti.
La proattività parrebbe quella caratteristica che consente di anticipare i cambiamenti di un dato contesto in modo da non farsi trovare impreparati e anzi trarre il massimo vantaggio nell’anticipare il potenziale negativo di una situazione che muta. Prevede una forte dose di intuizione e creatività nel prendere quelle decisioni giuste e necessarie. Per alcuni addirittura il contrario, per molti la versione evoluta, della reattività, troppo novecentesca per restare fuori dal baule delle cose vecchie. Non si dica che l’uomo del terzo millennio resti a guardare nel mentre gli passa davanti il cambiamento. Santi numi che pena mi fate, dice una canzone. Insomma, per semplificare, potremmo affermare che la proattività è quella capacità atta a non farsi sorprendere dal cambiamento ma domarlo prima ancora che si palesi. Bene, non è finita. Se non si riesce ad attivare in autonomia questa risorsa dormiente che naturalmente ognuno ha già installato nel proprio sistema operativo, ci si può comodamente rivolgere agli esperti del settore. Coloro che non si sa bene il perché, forse forgiati da un vissuto che gli ha permesso di cambiare canale prima che si spegnesse la tv, detengono la chiave di attivazione di questa qualità per tutti coloro che ne hanno bisogno. Parlo dei life, mental, business, executive coach. L’aberrazione semantica di quarta generazione. Gli Osho della nuova agorà capitalistica. Dopo aver abolito la società a favore dell’individuo, arriviamo alla pura astrazione dell’umana capacità di essere agente portatore di cambiamento a favore della collettività. Consolidando sempre di più la convinzione che ciò che ci circonda non dipende da un agire collettivo consapevole, non esiste un corpo sociale e un pensiero sociale che determina le condizioni che fanno da sfondo alla vita di ognuno di noi, condizionandone l’orientamento esistenziale. Nulla di tutto questo. D’altronde ciò che ci circonda non dipende certo da noi. Si è solo ospiti che con cortesia e riverenza possono al massimo ambire al ruolo di uscieri e mai a padroni di casa. Giusto? Se sì andare al punto successivo, se no ripassare le videolezioni del coach.
Il capolavoro lo si raggiunge con l’altro compagno di viaggio, la resilienza. La resilienza, nella tecnologia dei materiali è la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, l’inverso dell’indice di fragilità. Quindi mutuando questo significato per applicarlo alla psicologia umana, per evitare di rompersi come un delicato cristallo, la sola alternativa è acquisire le competenze per non frantumarsi al minimo urto. Limpido come acqua di sorgente: se proprio non si riesce a sorprendere il cambiamento, quello esclusivamente negativo altrimenti crollerebbe l’intero castello, non resta che imitare un materiale a scelta nel catalogo, prepararsi all’impatto e sperare di aver letto bene il bugiardino della Resilientina 100mg, prima dei pasti due volte al dì per 10gg.
La resilienza viene presentata come quella capacità di assorbire e ristrutturare i fallimenti, considerandoli inevitabili tappe verso il successo. Insomma degli intoppi, sempre per nostra responsabilità, che semplicemente fanno prendere una traiettoria imprevista all’esistenza. Ma non bisogna mollare, si deve essere più testardi degli eventi, perché in fondo al tunnel la luce della propria vittoria (di che cosa, non deve interessare) è sempre visibile e prima o poi, costi quel che costi, la si raggiunge. Non importa se sul cammino si è costretti ad un po’ di disonestà e prevaricazione a scapito di qualche altro essere umano meno resiliente. Vittime collaterali di cui non tenere nemmeno il conto. L’importante è non perdere di vista la propria meta, il traguardo che conduce alla felicità eterna, declinata al singolare e non sia mai al plurale. Anzi, se proprio si rende necessario spartirla un po’, bisogna farlo solo in funzione di una ragione strumentale al proprio scopo. Se proprio non si può evitare, condividerla il tempo utile per avanzare di qualche metro nel tunnel, come un minatore che avanza cauto senza piccone ed armato solo di carriola per raccogliere il materiale di risulta. D’altronde un po’ di egoismo non ha mai ucciso nessuno, figuriamoci la pratica della resilienza.
Questo è il motto della classe dirigente: resilienti e proattivi di tutto il mondo sparpagliatevi e diffondete il bacillo del nuovo rinascimento linguistico. Non opponete resistenza altrimenti vi verrà tolto anche quell’esiguo diritto di partecipare alla partita (in differita solo per voi). L’unico verbo con facoltà di coniugazione è perdere, non senza averci provato. Dovete interpretare il ruolo della squadra materasso del campionato ma senza darlo troppo a vedere, con dignità accompagnare il pallone nella vostra porta e esultare come se foste voi ad essere passati in vantaggio. Attenti, non bisogna umiliare il più forte, il fischietto è nelle sue mani non nelle vostre.