Saluto la mia bella macchinetta, l’accarezzo sulla testa e lei, tutta soddisfatta, mi fa pure un complice occhiolino con un fanale. Sono commosso, si. Mi vuole bene, non c’è niente da dire.
Ripartiamo, le dico. E tu, buffone mio compare, che aspetti ad entrare? Ripiega quelle ali, forza che c’ho fretta.
E subito siamo in strada. Dopo qualche chilometro arriviamo a Ferrara. Una freccia sbilenca e arrugginita ci indica la direzione che porta al mare e una sterzata brusca ci immette nella strada provinciale per Codigoro.
Non posso di certo sbagliare! Mi dico.
Arrivato ad un certo punto la strada e il fiume si tengono per mano. Procedono per chilometri l’uno di fianco all’altro passeggiando come due teneri amanti. Il rumore delle macchine e quello dell’acqua che scorre placida e beata si mischiano come fossero intimi umori. Fanno all’amore. Da quest’affetto promiscuo io rimango affascinato tanto è intenso e delicato. Allora, come per incanto, ormai pacificato, mi fermo in un bar a prendere…
Un caffè? Direte voi.
Sbagliato, vi ho fregato.
Ordino un gelato al mandarino e mi siedo ad un tavolino. E mentre gusto il mio gelato cerco di pensare alle sorti del papato, ad un uomo che suona il suo violino, al debito dello Stato, allo scioglimento dei ghiacciai, al volo degli uccelli migratori e al duro lavoro dei minatori.
Ma… perché lo faccio? Mi domando.
Allora lascio stare. Poi m’accorgo che seduto accanto a me c’è un uomo che legge il suo giornale. Lo tiene davanti a sé fissandolo in un modo innaturale. Sembra una statua di cera. Nemmeno un muscolo che si muove.
Respira? Mi viene da domandare.
È un tipo in carne, è tonico, muscoloso e a prima vista può sembrare anche bello. Ha il volto ben rasato e in testa, calcato fino agli occhi, porta un cappello. Mi alzo, faccio un giro, mi avvicino alle sue spalle e poi, di scatto, opplà!, salto di lato. Nessun segno di vita. Il suo sguardo è sempre lì inchiodato. Allora mi piego sul suo viso per vedere almeno se respira. Niente. Non si muove. Mi ritraggo e lo guardo da un poco più lontano. Niente. Giro dall’altra parte e faccio un cenno di saluto. Ancora niente. Allora…
Bum!
Gli faccio per vedere se reagisce. Niente, tanto per cambiare. Allora, come ultimo tentativo, chiamo il mio angelo custode
Vieni qua ho bisogno d’un favore, e dai, fatti vedere! Gli dico.
Penso che di fronte ad un essere così bislacco con le ali attaccate con lo spago sulle spalle quell’uomo che legge il giornale non può rimanere indifferente. Invece…
Basta, è troppo, è inutile che insisto.
Volto le spalle e me ne vado. Solo a quel punto lui gira lentamente lo sguardo senza muovere la testa. È solo un attimo, un accenno perché poi ritorna a fissare il suo giornale.
Che tipo! Esclamo. Da dov’è sbucato?
Prima d’andarmene, però, guardo la data di quel giornale: è quella di sei mesi fa. Chissà perchè? Ma non ci sto tanto su a pensare. Torno dalla mia bella due cavalli che ritrovo offesa, anche lei avrebbe gradito un bel gelato. L’avrebbe desiderato al gusto d’olio di motore.
Quante storie! Le dico. Per così poco? Me ne sono dimenticato!
E poi…
Chi t’ha detto che quel gusto sopraffino in quel bar l’avrei trovato? Quindi adesso basta con i capricci e ripartiamo.
Lei, riluttante, si mette in moto e attende che le indichi la via.
Ed io? Mi chiede l’angelo custode.
Tu che cosa?
Anch’io avevo voglia d’un gelato.
Ma senti questo! Che pretese! E… che gusto avresti preferito?
Vediamo… al gusto della Comune di Parigi!
A che? Che gusto è?
Sei sordo? Mi risponde. Non hai sentito?
Ma lascia stare, saltimbanco! Smetti di prendermi per il culo, io gli dico.
E poi taccio.
Sei cattivo ma, vedrai, prima o poi te la farò pagare. Mi risponde frignando.
Ma io me ne frego della sua minaccia e ancor di più delle sue lacrime salate (peggio per lui) e torno a pensare al mare che mi aspetta.